Lorenzo Costa nella storia della Poesia Italiana nel secolo XIX

Lorenzo Costa nella Storia della Poesia Italiana nel sec. XIX

Lezione all’Università Popolare della Spezia (2 febbraio 1925).

 

Lorenzo Costa ebbe dalla Spezia, la sua città natale, insigni onori: ad una via dei nuovi quartieri fu dato il nome di lui; l’istituto classico, il liceo ginnasio, fu intitolato a lui con una deliberazione della Magistratura cittadina del 19 agosto 1885, proprio durante quegli anni in cui il Comune teneva affidata la direzione di quella Scuola ad un altro illustre poeta, Severino Ferrari; nel Palazzo del Comune, per dono munifico del Beverini, sindaco non dimenticabile e non dimenticato, fu collocato il ritratto di lui, magistrale opera di Felice del Santo, che raffigurò la bella figura patrizia, dall’ampia fronte turrita, illuminata dalla luce interna d’un intelletto superiore, in mezzo ai suoi libri, nella sua sontuosa biblioteca, mentre stringe nella mano il volume stampato del suo poema.

Con tali insigni onori la Spezia riconosceva solennemente i grandi meriti letterari di Lorenzo Costa.

Della vita e dell’opera letteraria di lui sarà utile questa sera, nell’Università Popolare, ravvivare la conoscenza con questa lezione.

 

La vita di Lorenzo Costa (18 ottobre 1798 - 10 luglio 1861)

Tra le biografie del Costa, mi attengo a quella che stampò in un giornale della Spezia, ventun anni dopo la morte del poeta, un erudito concittadino, modesto ma ben informato.

«Lorenzo Costa nacque alla Spezia il 17 ottobre 1798 da G.B. Costa, patrizio sarzanese, e da Angiola Picedi dei Conti di Vezzano. Ricevuta in famiglia la prima educazione sotto il governo di certo D. Carro, prete di Biassa, entrò giovinetto nel Collegio di Lucca a studiare lettere e filosofia. Là furon cagione di meraviglia ai maestri e ai condiscepoli l’ingegno suo profondo e vivacissimo e la rapidità dei suoi progressi; la quale fu tanta che, come si racconta, dei versi italiani, dettati dal professore da voltarsi in latini, egli faceva la versione durante la stessa dettatura. E fin d’allora mostrò che la natura lo aveva dotato di forte e calda immaginazione, della quale lo agitavano i fantasmi siffattamente, che non di rado ebbe a gittare il turbamento per la collegiata con le grida delle sue notturne visioni. Con sommo ardore studiò le classiche lettere, di cui lo squisito finissimo gusto, ond’era dotato, gli permetteva di penetrare le più riposte bellezze; e, su tutti gli scrittori latini, predilesse Cicerone, del quale nella sua prosa si studiò di imitare la gravità e la magniloquenza. Né fu ignaro del greco; della qual lingua ebbe a maestri il Lucchesini e Stefano Grosso. Nell’Università di Genova attese alle discipline giuridiche, ed ottenne laurea e titolo d’avvocato. Ma la natura lo portava alle lettere ed alla poesia, e ad esse intieramente consacrò la sua vita, che gli agi facevano sicura contro la tirannia del bisogno... [Di Genova] fece la sua dimora abituale e vi godette parentele ed amicizie notevoli, felicità di figliuoli, vita senza disagi, e tant’ altre prerogative, che - son sue parole - se genovese non fu per nascita, lo fu per desiderio, per affetto e per gratitudine. Tuttavia mai si vergognò del suo paese, luogo allora umile e poco noto; del quale anzi affettuosamente scriveva che in niuna parte si troverebbe o clima più respirabile, o campi di più vago prospetto, o quella meraviglia del mare che fra bei colli s’ingolfa con sicurissimi grembi, e stazioni capaci d’ogni considerevole armata. Lodava l’indole degli abitanti; fra i quali diceva di vedere sparsi prosperi semi che dovevano un giorno fruttificare; ed affermava questo solo bastare a fargli venerato il suo paese nativo, che vi nacquero Aulo Persi e Bartolomeo Fazio, due nomi da superbirne l’Italia che non l’umile distretto della Provincia».

 

Tempi di Lorenzo Costa

Tale fu la vita di Lorenzo Costa, vita volontariamente ristretta entro i limiti delle cure famigliari e degli studi letterari.

Eppure quei del Costa furon tempi agitati; tempi di preparazione rivoluzionaria, di rivoluzioni e di guerre; di grandi speranze e di delusioni dolorose; di audaci battaglie e di tragiche sconfitte; di rinascente fede e di rinnovata energia; di vittorie che formarono la base solida del risorgimento italiano.

Lorenzo Costa, giovinetto, assistette al crollo dell'impero Napoleonico, aveva diciassette anni alla data del Trattato di Vienna, che metteva sotto la schiavitù dell’Austria principi e popoli italiani; poi seppe della segreta opera delle sette; vide forse anch’egli aggirarsi fuggitivi per le vie del porto di Genova, in cerca di scampo nell’esilio, Santorre di Santarosa con i suoi compagni; attraverso i dolorosi anni trascorsi dal ’21 al ’31, potè seguire da vicino, fin dagli inizi, la magnifica azione di Giuseppe Mazzini. Il Costa aveva cinquant’anni quando scoppiò il quarantotto, tempesta magnifica, come la definì Giosuè Carducci; aveva sessant’anni, quando dopo un decennio di preparazione l’Italia riprendeva la sua marcia vittoriosa verso il raggiungimento dei suoi destini; e potè morire dopo il trionfo della spedizione di Garibaldi e dei Mille, partiti dalla vicina Quarto, e dopo la proclamazione del Regno d’Italia, cui si assegnava ormai Roma come capitale con sicura promessa.

Ma giova ricordare anche l’ambiente letterario italiano, in cui si svolse l’opera di Lorenzo Costa, derivandone - com’ è naturale - atteggiamenti di pensieri e di forme.

Attorno al poeta giovinetto ferveva la battaglia, non solamente letteraria ma anche politica, tra romantici e classici: i romantici (ricordiamo brevemente) erano gli scontenti del presente, così nelle lettere come nelle condizioni civili, ed aspiravano ad un rinnovamento nell’uno e nell’altro campo; miravano a preparare l’avvenire con la rievocazione del passato, del più glorioso passato italiano: l’età dei Comuni, della rivolta armata delle Città contro l’imperatore, della fede religiosa viva, della poesia originale e sincera.

I Romantici erano quindi dei liberali; ma sarebbe ingiusto ritenere che tutti i Classici fossero dei retrivi e degli austriacanti. I Romantici dicevano di voler nell’arte sostituire il vero e lo spontaneo al retorico ed all’accademico; ma erano ingiusti nel ritenere che tutta l’arte dei Classici fosse falsa ed artificiosa. I Romantici si proponevano di usare una forma semplice e moderna, in luogo della forma studiata, compassata ed antiquata dei Classici; ma erano esagerati nell’asserire che la forma dei Classici peccasse sempre di quei difetti. I Romantici, per sollevare tutti gli uomini a nobiltà di sentimenti e di opere, volevano prefiggersi scopi giovevoli alla società invece di scopi puramente letterari; volevano insomma che la letteratura fosse non soltanto ad uso delle persone dotte, ma a beneficio di tutta la Nazione. Forse era eccessiva la critica dei Romantici su l’opera letteraria dei Classici, anche per questo rispetto; ma i Romantici certo, di fronte ai loro avversari, ebbero il gran merito di aver fatto una così alta e nobile proclamazione della missione civile delle lettere.

 

Le Poesie Liriche

Delle poesie liriche del Costa prendiamo prima in esame quelle politiche.

Da esse di può ricavare che Lorenzo Costa appartenne al partito dei neoguelfi, che voleva «strappare il Papa dalle branche dell’Austria, e restituirlo al popolo italiano: mente lui dell’Italia, spada Carlo Alberto, ordinamento finale una lega di principi riformatori, che escludesse l’Austria, non rivoluzione, non costituzioni, né unificazione, né unità».

L’elezione del Cardinale Giovanni Mastai Ferretti (entusiasta dei libri del Gioberti, del Balbo e di Massimo D’Azeglio), che assunse il titolo di Pio IX, i suoi primi atti politici, accompagnati dall’entusiasmo di tutto il popolo italiano, parvero dar ragione ai neo-guelfi; e Carlo Alberto (che fino allora era stato trattenuto nelle sue propensioni patriottiche dal timore della riprovazione della Chiesa) vedendo il contegno del nuovo Papa, si ritrovò stimolato a proseguire più franco in quella via, nella quale aveva già mosso passi corti ed incerti.

A Genova negli ultimi quattro mesi dell'anno 1846 avvennero frequenti dimostrazioni popolari, animate da un grande entusiasmo patriottico; prima, nell’occasione dell’ottavo congresso degli scienziati italiani (vi accorsero quasi tutti i più eletti ingegni della penisola, così che il Balbo potè dirlo il primo vero parlamento italiano; vi si parlò infatti di politica più che di scienza, e vi si manifestarono calde aspirazioni); poi per la ricorrenza del centenario della cacciata degli Austriaci, iniziata da Balilla. Il governo di Carlo Alberto lasciò che tutte quelle dimostrazioni liberamente si svolgessero.

Il Costa il 15 dicembre (10 giorni dopo la dimostrazione per la commemorazione della cacciata degli Austriaci) indirizzava una canzone a Carlo Alberto, esortandolo alla riscossa:

 

O eccelso Re, ti piaccia

Non dubitoso ormai

Udir la voce di cotanti oppressi;

 

assicurandolo che gl’italiani sarebbero stati con lui:

 

Deh non temer che ignari

Sieno i tuoi figli; ed erra

Chi prodi li tenea sol di speranza.

Te seguiran gli schiavi,

Emancipati, a guerra,

Come giovani sposi in lieta danza.

 

E minaccia d’infamia coloro che non avrebbero risposto all’appello:

 

Che se altri aver più cara Forse vorrà la vita,

Che la Patria gemente in dura sorte E non farà sull’ara,

Che la virtù gli addita,

Degno olocausto di se stesso a morte,

Gli nieghi la consorte Il geniale amplesso,

Perda gli amati figli;

Volto in diversi esigli

Sotto barbaro ciel, vada con esso

L’infamia della colpa, e il maledetto

Non lasci alcuna eredità d’affetto.

 

E quando - scrive il concittadino Luigi d’Isengard - nel 1848 il vessillo tricolore sventolò tra gli inni e le fanfare, nuovo Tirteo, dedicava agli insorti Pontremolesi un felicissimo canto di guerra:

 

Tra il Magra ed il Verde pel giogo apuano,

Dal rapido Zeri all’irto Rossano,

Un volgo concorde repente si desta,

All’Armi gridando con suon di tempesta,

Che assorda le valli, che abbrivida i cor.

E’ il mugghio supremo dell’ira, che affretta

Sul capo ai tiranni la giusta vendetta

Dell'aspra ferita che insanguina ancor.

Piuttosto gli orrori del verno e la fame

Che il becco e gli artigli

dell’aquila infame;

Piuttosto che il peso del giogo straniero,

Che i tetri colori del giallo e del nero,

Piuttosto vogliamo di laccio morir.

 

Ma, dopo il disastro di Novara, che chiude la campagna del 1849, dopo il fallimento del programma dei neo-guelfi, il Poeta, rimasto fisso tenacemente nelle sue idee politiche, nelle quali soltanto vedeva il bene della Patria sempre più amata, ostile agli uomini ed alle idee che dal 1849 al 1859 e al 1860, vengono mutando le fortune d’Italia, ango¬sciato da lutti domestici, si richiude in una solitudine dolorosa, tratto tratto prorompendo in canti avversari ai tempi, canti che però egli non pubblicò, ma che altri pubblicarono più di 30 anni dopo la sua morte; ed il poeta e l’artista son responsabili della loro opera, soltanto quando essi, proprio essi, la danno in possesso al pubblico. Non diamo quindi più ascolto a quei versi, se anche magnifici nella forma, perché essi non hanno il consenso delle nostre anime.

Delle altre liriche, quelle che chiameremo d’argomento diverso, il capolavoro è l’«Inno a Niccolò Paganini».

Per darne un saggio, rileggiamo i versi meravigliosi nei quali il Poeta dipinge il Paganini nell’atto di suonare il violino:

 

Ei dagli atti spirando e dal sembiante

Tutta l’aura di Dio, che lo governa.

Procede al mezzo della scena, e rompe

L’alta quiete: All’arduo tocco impresso

Dalla dita versatili, guizzanti

Dal collo della cetra in fin là, dove

S’inizia un suono di più acuta tempra

All’atteggiarsi del pieghevol braccio

Che or lene lene le protese fila

Liba volando, or le affatica e morde

Subito e spesso, inusitato intorno

Melodioso fremito percote

L’aèr tremante. Egli talor, d’un solo

Tratto dell’arco, le tre corde avvinghia;

Talora in sulla grave egli si appunta.

E, l’intima e l’estrema abbandonando,

Il vario suono delle quattro in una

Raccoglie intiero. Con alterna voce

Spesso adopra la manca, e alle vocali

Liquide note fa seguire (in tempra

Di giga o d’arpa) armonizzar concorde,

E voci d’eco, e dei pennuti il canto,

E umani accenti, ed un fragor di tesi

Timpani, ed un sottil dolce tintinnio

D’argentee squille. Né mai cade in fallo

Tenor d’accordi; e sien veloci e lente,

Acute o gravi, dal sonoro legno

Volan le note ad incolpabil metro,

Obbedienti sì, che ognuno a tanto

Poter di sovrumana arte impaura!

 

Il Poema «Cristoforo Colombo»

Il poema incomincia con una invocazione alla Trinità; e seguita con la descrizione della creazione del mondo e dell’uomo, e, in rapidissima sintesi, tratteggia la storia dell’umanità dagli inizi fino alla nascita di Cristoforo Colombo.

 

In quella parte che Appennin selvoso

Fra Lerici e Turbia stende le braccia

E la soggetta ligure marina

Si svolge ad incontrar come sua sposa.

Delle itale città candida perla

Genova siede, e per mutar di sorti

O liete o lagrimose ella non muta

Regalmente a mirarsi ancor superba.

Ivi nacque Cristoforo Colombo. I parenti furono forse profeti,

E al suo battesmo lo chiamar qual’era

Cristoforo Colombo, affettuosa

Colomba eletta e portator di Cristo.

 

Perché - per il poeta - Cristoforo Colombo è «un gran messo di Dio», che in tutta la sua vita fu guidato dal grande ideale di convertire al cristianesimo popoli selvaggi, viventi in religioni false e bugiarde:

 

E pietà gli fu sprone, e dritto zelo

De’ miseri fratei non perdonati

Dell’antica malizia...

 

e - secondo il poeta - Cristoforo Colombo fanciullo (mentre si dilettava di studiare carte geografiche e nautiche)

 

...ancor fu visto

Lungo i lidi vagar presso la sera,

O starsi in cima del veron parteno,

Tacito e solo, i roscidi tramonti

Contemplando, così quasi dicesse:

«Quanta invidia ti porto, o sol, che vai

A gente che di là piange in disio,

E una luce da me più viva aspetta!»

 

Studiata matematica e astronomia, il Colombo si diede ai viaggi marittimi:

 

...aprì le vele

E i larghi flutti misurò, che suonano

Per la maggior mediterranea conca

Fra la Tana e la Stretta, e poi l’estrema

Vide barbara Islanda, e sì vicino

Corse la fredda region polare

Che dinanzi da lui nessun pilota

Segno mai non ardì tanto superbo

Nel temuto Oceàn. Lunga palestra

L’animoso garzon durò pe’ vasti

Cerulei piani; e lo scaltrìa la voce

Or di calme infedeli, or di tumulti

A sostener con immutabil petto

La nautica fortuna. Udì sovente

L’infuriar di Noto e di Libeccio

Quando pugnano insieme, e tra l’avversa

Falange delle nubi urlano i tuoni;

Sotto liquidi monti inabissato

Fe’ talor nelle sabbie orribil tomo,

O cavalcò la fumida criniera

De’ marosi che vanno alto ruggendo,

Simil a torme di leoni in caccia;

Guizzò rasente le mal note sirti,

O diede il fianco della nave incontro

Gli scogli, e conquassato ebbe dall’urto

Gli alberi a mezzo ed il timon sconfitto.

 

Ma Colombo temprò l’anima sua, non solo nella lotta contro gli elementi, ma anche nella lotta contro gli uomini.

E il poeta descrive un combattimento navale tra veneziani e genovesi, tra i quali era Colombo:

 

...Ecco affilarsi,

Lungo Roca di Sintra, a pien remeggio,

Quattro spalmati galeon, cacciando

Tre minori galee. «Viva San Marco».

Sciama la ciurma audacemente, e tratte

Fuori le daghe e gli arcobusi in mira,

Uncina i legni e fa crudele abbordo.

Questo è ballo di guerra: e il Genovese

Volentier vi si lancia, e non patteggia

Con nessuna viltà: «Viva San Giorgio,

Viva la Croce». E quinci e quindi un fiero

Suonar di lame ripercosse, un crepito

Qual di fischianti folgori si mesce

Per le tolde arrembate. Elmi e loriche,

Il raddopiar de’ subiti fendenti

E delle punte e dei rovesci ismaglia,

Rompe, trafora; balzano recise

E teste e braccia; chi bestemmia ed urla,

Chi martella, chi para, e chi trafitto

Nel proprio sangue e nell’altrui, boccheggia.

Tutto ha faccia d’inferno, «il fuoco, il fuoco»:

Abbruciano due navi, e in dubbio sta

Della vita Colombo...

...Iddio lo salvi;

E lo salvò, che tra faville e fumo,

Sua mercè, con un salto ei si disciolse

Da quell’estremo, ed afferrata alcuna

Tavola o scheggia, ai Lusitani liti

Placidamente fluitando emerse.

 

Colombo fissa la sua dimora nel Portogallo, e a Lisbona, dove intorno a Re Giovanni c’è una febbre di attività diretta a nuove scoperte, il disegno prende contorni precisi e determinati nella mente di Colombo. Il Poeta ricorda l’amore di Colombo per colei che fu poi sua moglie:

 

...sì gli piacque

Il casto riso ed il costume adorno,

E l’abito gentil, nulla diverso

Dalla cognata idea, che te sol una,

Fra cento, inanellò, ninfe del Tago.

E tu sempre l’amasti....

 

Ma la fedel consorte morì presto:

 

Ei sol rimase; e tu, lontan, com’eri

Indietro a riguardar se ti seguiva,

Rivolgesti la fronte, e fra baleni

Poi dileguò la tua leggiera imago...

 

Rimasto solo Colombo col piccolo figlioletto Diego, l’immenso dolore non lo distoglie «dall’intento sublime», Paolo Toscanelli, il grande matematico fiorentino, gli dà il suo consenso.

Ed allora Cristoforo Colombo

 

...a qual fra tanti

Popoli arditi, ambiziosi e forti.

Supplice in atto, chiederà l’argento

Che gli appresti due navi?...

 

Il Poeta segue Colombo nella sua dolorosa peregrinazione alla ricerca dei mezzi per la grande impresa. Dopo le ripulse di Genova e di Venezia egli riesce ad esporre i suoi disegni alla corte ed ai dotti di Salamanca. Giudicato quasi per un visionario, Colombo fuggìa Salamanca e le vantate scole, e tornava al convento della Rabida, dove aveva già trovato affettuosa ospitalità; e il Poeta descrive il doloroso lungo viaggio a piedi:

 

Trascinando la vita all’erto, al piano,

Sotto la sferza degli assidui soli,

Pien di torbi pensieri, e qualche asilo

Ed un povero pan, dove s’arresta,

Lemosinando, proseguìa da venti

Giorni l’eroe sì faticosa andata.

Le tenere con esso orme ineguali

Movea, soffolto dalla man paterna,

Diego innocente...

...«Ormai non posso

Più seguirti - dicea - padre: mi doma

L’aspro cammino, son fiacco, anelante,

Sitibondo, famelico: seguirti

Non posso, padre mio, se non m’aiuti».

E gli cadeva estenuato ai piedi,

Sospirando così, che di timore

Compreso e di pietà vicin gli cadde

Colombo anch’esso....

 

La conquista di Granata fa sì che la regina Isabella ottenga di poter apprestare a Colombo i vascelli per la traversata.

Il viaggio non presenta nulla di favoloso: solo che il Poeta accetta dalla tradizione il famoso aneddoto dei tre giorni concessi dai marinai a Colombo come estremo limite per la durata della navigazione. In quella ribellione dei marinai, per la prima volta comparisce sulla scena uno dei principali personaggi del poema: lo spagnolo Alfonso, forse discendente di qualche Visigoto audace, rubator di castella ed omicida', presuntuoso, superbo, prepotente; turpe per vizi volgari; uccisore di deboli; sfregiato il viso in risse, dissipatore del patrimonio avito; egli si fece compagno al Colombo nella incerta e pericolosa spedizione, o per fuggire rimminente pena o la miseria.

Il primo a vedere la terra nel poema del Costa è, contrariamente alla verità storica, Colombo; il quale, poi, disceso, esce in un lungo inno di ringraziamento ed in una profetica descrizione degli orrori che sulla terra avrebbero commesso Pizzarro e Cortes.

I libri IV, V e VI del poema sono dedicati agli avvenimenti d’America.

Sono questi i libri nei quali la fantasia esuberante del Poeta si abbandona alle sue finzioni, creando una tragedia che commuove i lettori con l’urto violento delle passioni.

Tra i selvaggi che fuggono dinanzi ai Cristiani sbarcati, v’è una fanciulla: quando sta per essere raggiunta da un drappello di inseguitori, interviene Diego, il giovinetto figliolo di Colombo, alla cui vista i suoi compagni fuggono, lasciando libera la giovinetta, che è caduta sul deserto lido, svenuta dalla paura:

 

...avea

Chiusi gli occhi sereni, e delicato

Vel d’innocenza ricoprìa la bella

Nudità delle sue membra bambine:

Pare che dolce dolce ella posasse

Come stanca persona, e che i riposi

Ne gisse intorno lusingando un’aura

Di soave tristezza...

 

Diego la rianima; un subitaneo amore concilia i due giovani, e Azema (così si chiama la fanciulla) conduce Diego al villaggio, dove è la capanna del suo vecchio e cieco padre.

Alla luce del fuoco che ne illumina la persona si presenta agli occhi di Diego il vecchio:

 

...Oh quanto

Pien di severa maestà! La barba

Con esso i crini dell’annosa testa

Bianchi ed incolti gli cadeano...

...il portamento

E i solchi delle gote ¡scolorate,

Meglio che fonte dell’età, la guerra

Mostravano del cuore invitto e saldo

Ai colpi di fortuna; affaticato

Ma non oppresso ancor dalla vecchiezza

Sua verdeggiante, si direbbe alcuno

Di quei primi gagliardi archimandriti

 

Diego dichiara al vecchio chi egli è, e quegli allora esclama: io sono Tedisio, ho da Genova il sangue; io sono Tedisio Doria,

 

Nepote all’altro che lasciommi il peso

Dell’antica sciagura ed il funesto,

Carcere, ov’io da lunghi anni m’attempo

Fra tanta scurità logoro avanzo

Cui la vita e la morte ormai rifiuta.

 

Ai lettori piace questa invenzion del Poeta che Colombo trovi in America il discendente di quel Tedisio Doria, che, uscito di patria nel 1291, per cercar nuove terre, non era più ritornato; il Costa ne trae occasione per celebrare quel dimenticato navigatore genovese.

Diego ed Azemia si innamorano l’uno dell’altra e si legano con solenne promessa; ma la morte la scioglie ben presto, perché essendosi d’Azemia brutalmente innamorato Alfonso, e volendola questi ad ogni costo, una mattina che la trova sola e repugnante alle sue voglie, la uccide a colpi di pugnale. Il vecchio Tedisio muore di crepacuore. Alfonso, che si era dato alla fuga dopo il misfatto, inseguito e preso, vien condotto a viva forza dinanzi a Colombo, che lo invita a scolparsi; ma il torvo Alfonso, dopo “la scherma d’un sogghigno infame”, cinicamente confessa:

 

O Genovese quella mal diletta

Sol io trafissi, e me ne glorio, e il vivo

Fiume di sangue, che mia veste inonda,

Rigurgitò dalle segate vene,

Quando il cor nella giusta ira le spensi.

 

Colombo pronuncia la sentenza:

 

Via costà scelerato: e poi che sete

Di sangue ti riarse, e tu l’affoga

Nel mar profondo; e il contrappasso è questo.

 

Un sacerdote si avvicina al condannato, e invitandolo a pentirsi, sporge verso di lui il crocifisso; e

 

...quell'iniquo

Sputò nel segno dell’uman perdono:

Poscia, falcando fra la bocca e il naso

Il pollice con l’altro onde s’accenna,

Mandò levato la sua testa, un trullo

Dai rozzi labbri, e vilipese il Cristo.

 

Dagli astanti inorriditi viene Alfonso afferrato, percosso, e precipitato dall’alta rupe nel profondo dell’oceano.

Partono Colombo e i suoi compagni dalla terra dolorosa, e navigano alla ricerca di nuovi lidi, ed approdano ad Aiti, e da Aiti giungono a Cuba, donde vien presa la via del ritorno in Ispagna,

Negli ultimi due libri appunto il poeta descrive il viaggio di ritorno, pericoloso per le tempeste e le calme (la descrizione di queste dà occasione al Costa di un’altra descrizione, quella del vapore applicato alla navigazione, descrizione che stende per oltre 200 versi) e narra altresì le accoglienze fatte a Colombo dal Re di Spagna, compresa una caccia di tori, nella quale Diego riesce vincitore, malgrado gli inganni di Sancio, fratello di Alfonso, che vuol vendicarne la morte.

Così finisce il poema.

Il «Cristoforo Colombo», pubblicato in prima edizione nel 1846, ed in una seconda edizione dodici anni dopo, nel 1858, ancora vivente il poeta, suscitò tra i contemporanei lodi quasi generali. Ma poi, col trascorrere degli anni, le lodi s'indebolirono, e la critica emise giudizi un poco arcigni.

Cominciò il Cantù, che pure con il nostro Poeta non poteva avere grandi dissensi né politici né religiosi, a scrivere: «Di lunga mano fu preconizzato il Colombo di Lorenzo Costa, come destinato a mostrare che l’epopea sia ancora possibile; comparso, valse a provare il contrario».

Il Mestica, pur così cauto nei suoi giudizi, parlando del Costa, premette: «La mediocrità dei cultori dell’epopea del sec. XIX ha fino a qui confermato la sentenza di Alessandro Manzoni che il poema epico non è più dell’età moderna».

Il D’Ancona ed il Bacci dicono: «...ormai un poema epico era frutto fuor di stagione, e la macchina poetica irruginita non si muove libera e franca, impedita da episodi, e non giovata dalla larga introduzione del sovrannaturale».

Il Mazzoni nota che neppure il poema del Costa nacque vitale.

Il Belloni giudica: «la tessitura del poema è poco organica e lo svolgimento non proporzionato nelle sue varie parti».

Ma anche questi critici non possono poi dimenticare i pregi; e dicono:

Il Cantù: «splende di qualche bella parte».

Il Mestica: «...questo poema, non epico nel pieno senso della parola, per vari pregi è superiore agli altri poemi epici, se così possono chiamarsi, del secolo XIX. Il soggetto è moderno e nella moderna civiltà intrinsecato, nobilmente tratteggiato l’eroe; in varie parti qua e là la medesima altezza, e dove quella scende appariscono bellezze poetiche di altro genere. Nello stile è un'impronta originale, e l’elocuzione... è bella per vari pregi; l’endecasillabo sciolto ha un ritmo ben modulato e in generale rispondente alla dignità della poesia epica e alla varietà della materia».

Il D’Ancona e il Bacci: «Superò nel poema molte difficoltà....tratteggiò bene la grandezza morale del Colombo; temprò ottimamente e variò il verso».

Il Mazzoni: «...qualche bella pagina meriterebbe ancor oggi di essere più nota che non sia».

Il Belloni: «...il merito maggiore del Costa è quello di aver tratteggiata assai bene la figura del Colombo, facendone risaltare la energia senza diminuirne l’importanza con il continuo intervento delle forze divine o comprometterne la verosimiglianza con una soverchia perfezione».